Sarajevo 1998

Sarajevo 1998

Il treno è di quelli come non ci sono quasi più. Stavolta ho preso un posto cuccetta, e così posso usufruire del conduttore di carrozza che mi dà lenzuola pulite e una coperta. Riesco anche a dormire. Alla frontiera questa volta, forse per il fatto che sono un passeggero di lusso, non fanno problemi, e il poliziotto serbo mi augura anche buon viaggio.

Arrivo a Belgrado alle nove e venti, con un’ora canonica di ritardo per il treno trans-balcanico (come l’anno scorso, come anche quest’anno poi al ritorno). Omer mi aspetta sul marciapiede di una stazione che per dimensione in Italia hanno solo le piccole città. Omer mi aspetta con la sua solita freddezza, neppure scaldata dal fatto che da molto non ci vediamo, e che ora ci incontriamo entrambi lontani da casa.

Compriamo i biglietti per l’autobus fino a Pale. Aspettiamo il nostro pullman parlando ad alta voce in italiano, sicuri del fatto che nessuno ci possa capire. “Ragazzi, siete italiani?” uno ci capisce. È Nicola, un ragazzo di Bari, con la ragazza a Timisoara, che è venuto a Belgrado per trovare degli amici. Qui ha vissuto un anno, ha fatto la sua tesi su uno scrittore serbo poco conosciuto, di cui ho naturalmente già dimenticato il nome. Ora lavora in un programma di aiuto nel quadro delle Nazioni Unite in un paese vicino a Saraievo, dove è anche lui diretto.

Il viaggio in autobus comincia. Io e Omer abbiamo molte cose da raccontarci, e la gente del pullman è forse un po’ stupita nel vedere due ragazzi stranieri diretti a Pale. Una ragazza dietro mi chiede, in italiano, se parlo inglese, le dico di sì. Per ora finisce lì il nostro dialogo.

Omer è un nome turco

La strada inizia ad addentrarsi fra montagne. Costeggia il fianco di una di esse, alla destra c’è un torrente con la sua valle, sia apre alla vista un alto ponte alle cui estremità sventolano alcune bandiere. È la frontiera fra la Repubblica Federale Iugoslava e la Republika Srpska. Il pullman ferma, sale un poliziotto iugoslavo, controlla rapidamente le carte d’identità serbe, neanche il passaporto di Nicola lo preoccupa. Quello di Omer, e quello mio in quanto suo amico, sì. Ci chiede dove andiamo, la ragazza dietro di noi si intromette traducendo quello che dice il poliziotto. “A Pale” diciamo, sbagliando. “A Pale?”, risponde, “e da chi andate a Pale… volete andare a controllare che a Saraievo sia tutto a posto… ?”. Ci fa scendere.

Chiediamo l’aiuto di Nicola, per la traduzione. Il poliziotto sparisce con i nostri passaporti, preoccupandoci, poi torna. “Da chi andate a Saraievo?”, chiede, “da Dino”, rispondo. “Dino come?” ribatte. Poi passa a Omer, sul cui passaporto c’è un visto statunitense in cui è scritto “Released in Milan”. Milan è anche un nome di persona slavo. Omer è un nome turco. Alla fine arriva al punto che lo preoccupava, il nostro poliziotto: “Omer… sei musulmano?!”. Omer è un nome turco, molto diffuso anche fra i bosniaci musulmani. “No!… israeliano… ebreo!” rispondiamo in coro, quasi in modo liberatorio. Ci ridà i passaporti, risaliamo sul pullman e i nostri compagni di viaggio per lo più ci sorridono, ci chiedono “tutt’a posto?”, la ragazza dietro di noi mi chiede cosa sia successo, “niente, il mio amico si chiama Omer”, le rispondo.

I duecento metri del ponte sono percorsi, tocca ai poliziotti della Republika Srpska il controllo. Noi tre italiani veniamo fatti scendere, condotti nel gabbiotto, “dove andate?” – “a Saraievo, via Pale”, rispondiamo, stavolta senza esitazioni. Ci registrano e ci fanno andare. Alcuni passeggeri del pullman sono intanto scesi e a fianco di questo, guardano tutti verso di noi. In mezzo a loro c’è anche la ragazza bionda seduta dietro. Ci sorridono, ci chiedono se sia tutto in regola, qualche pacca sulla spalla. “Si parte?” chiede uno, “Si parte!” quasi urlando Nicola. Si ride tutti. Uno ci dice “io ho un fratello che lavora in Italia”.

Saraievo compare alla nostra vista quando la strada esce da una galleria. Mi colpiscono subito gli alti minareti, tanti. Poi ecco due grattacieli, ischeletriti, bruciati, e già noti.

Saraievo scorre sotto di noi. Il pullman la sfiora, correndo sul fianco della collina dove i cecchini serbi hanno fatto scuola. Saraievo ora si allontana, usciamo da Saraievo e arriviamo a Kula, un piccolo villaggio subito dietro la famosa collina. Dobbiamo ora prendere un taxi, lo prendiamo insieme a Nicola, fino alla sommità della collina, il confine, definito a Dayton nel ’95, fra la Repubblica Serba e la Federazione Croato-musulmana. C’è una sbarra arrugginita a margine della strada, ricordo di una frontiera di ferro, ora non c’è nessuno, nessun miliziano. Solo dei taxi, e il nostro tassista non va oltre, ci scarica e ci lascia al suo collega musulmano sul versante di Saraievo. La frontiera ufficialmente non c’è più, eppure qui tutti la conoscono centimetro per centimetro, e non osano passarla.

L’altro tassista ci prende in carico, gli diciamo l’indirizzo, ci porta, è in centro. La strada scende, e più ci avviciniamo al centro città più le case sono crivellate. Il tassista ci mostra, come farebbe un tassista romano ai turisti americani il Colosseo, i piccoli colossi di cemento sventrati. Noi, ammutoliti, non facciamo altro che guardare.

La casa di Dino sembra disabitata. È verniciata di fresco e i vetri di vernice sono ancora macchiati. Suono il campanello, sento qualcuno dietro. Apre la porta proprio Dino, lo saluto, lo abbraccio, è la seconda volta nella mia vita che lo vedo.

Dino è compagno di università, e grande amico, di mio fratello Franco, a Lione. Quando sono stato a trovare Franco, lui me l’ha presentato: “ti presento un ‘musulmano’ dagli occhi azzurri e capelli biondi”. Così, un po’ per scherzo, gli ho detto “ti verrò a trovare”. “Va bene, l’indirizzo ce l’hai”. Da allora non l’ho più sentito. Solo il giorno della partenza per Belgrado da Bucarest ho cercato di chiamarlo, ma è stato impossibile, ho così chiesto a Franco di farlo da Milano.

La casa che sembrava vuota è piena in realtà, con Dino c’è la sorella, i genitori e due signore in visita. Ci accomodiamo, c’è un po’ di imbarazzo. Le signore parlano con Nicola, io e Omer ci alterniamo alla doccia. Si parla della guerra, come se fosse quasi obbligatorio con degli stranieri.

Ogni tanto mi volto verso la finestra dietro di me. Enorme, a soli duecento metri, i resti del palazzo del governo, immenso e immobile, come un grande monumento astratto alla guerra. Poco sotto la casa di Dino, a metà strada dal palazzo del governo, il ponte che divideva serbi da musulmani, sul quale è stata immortalata, ora con una piccola targa di ottone, la prima vittima di questa guerra, una giovane ragazza bosniaca.

Dino mi mostra le foto della sua casa tre anni fa. Il balcone è saltato, centrato da una granata, il tetto pure, le pareti sono tutte scheggiate. La sua casa era esattamente sul fronte, sulla linea del fuoco.

Ora la stanno ricostruendo piano piano. Infatti nella casa c’è molto da fare, la madre si scusa di non avere un servizio di piatti completo, “sapete, ci è stato rubato quasi tutto”. “Mi dispiace dirlo, ma è stato il nostro esercito, ‘di passaggio’”, aggiunge Dino.

Una delle signore in visita racconta: “durante la guerra, mentre ero al lavoro in una farmacia, ho ricevuto una telefonata da un’amica, fra le altre cose mi dice che ha saputo che era appena piovuta una bomba sull’ospedale, questo a cinquanta metri dalla mia farmacia. E me lo dice tranquillamente, come se nulla fosse”. La signora ci fa osservare come la guerra d’assedio abbia portato a ritenere come un evento lontano il fatto che una granata sia caduta a pochi metri da un’amica. Nicola prosegue il suo viaggio, lascia la casa, lo salutiamo.

Con Dino, io e Omer andiamo in città. Per prima cosa ci porta dietro casa sua, a vedere quello che resta di alcune palazzine a quattro piani, proprio all’inizio della collina. Sono nere in quanto completamente bruciate e senza più i muri esterni. A contrasto con il nerofumo, in mezzo alla schiera di appartamenti, sono stesi ad asciugare dei vestitini colorati di bambini. I bambini giocano nello scheletrico labirinto di camere. Un ‘loculo’ è stato occupato da una famiglia di zingari, profughi da chissà dove.

Attraversiamo il ponte e vediamo da vicino quel che resta dell’alto palazzo del governo.

Saraievo sembra essere una città familiare. Quante volte l’ho vista in televisione. Ma ora vedere dal vivo quello che è stato un grande film massmediatico, pare più irreale di anni di reportage di guerra.

Siamo in una delle vie più famose del mondo, la ‘Snipers Avenue’, viale dei Cecchini, così irriverentemente ribattezzata dagli stranieri. Ora i tram vi corrono di nuovo, molti, colorati, sponsorizzati. Questo grande spiazzo che dà tanta aria al moderno centro di Saraievo, e nel quale si uniscono le due arterie principali, deve essere stato maledetto dai saraievesi, costretti o a passare lontanissimo, o a rischiare la vita correndovi a zigzag. Volgo lo sguardo alla mia destra, vedo a meno di un chilometro in linea d’aria la sommità della montagna che tre anni fa, nella mia stessa posizione, mi avrebbe probabilmente decretato la morte. Gli alberi sulla cresta sono ora stati tagliati, per evitare che qualcuno vi si possa di nuovo nascondere con intenti assassini.

Dino ci porta lungo la strada ancora intitolata al Maresciallo Tito. A Saraievo è tuttora molto amato, il fondatore della Iugoslavia socialista. Anche Dino ne ha un giudizio positivo. Dalla strada Maresciallo Tito si dirama una lunga via pedonale che porta al cuore della Saraievo vecchia. Molti sono i militari della SFOR, la forza di interposizione delle Nazioni Unite, che passeggiano. I più numerosi sono gli italiani. La via è molto bella, illuminata, bei palazzi, lastricata. Ogni tanto compare del cemento, espressamente colorato di rosso, posto a ricoprire il cratere lasciato da una granata, come una grossa macchia di sangue. È il marchio indelebile, ricordo quasi macabro, di una piccola strage. Per ogni buco coperto uno, due, o decine di morti. Ci colpisce anche la grande massa di persone che, come noi, passeggia. In certi momenti ci si deve fermare, tale è la ressa. Sono quasi tutti giovani. Ci sono molti bar, molti tavoli fuori sulle stradine laterali. Arriviamo alla piazza Bašcaršija, il vecchio centro della città, è notevole l’influenza ottomana, non solo per le moschee presenti, molto antiche, risalenti al XVI secolo, ma anche per le case basse, la trama di vialetti, il bazar dove si vende l’oro lavorato.

Dino ci invita a cena, prendiamo i cevapcici, salsicce dentro una fetta di pane, piatto tipico.

Al ritorno verso casa passiamo vicino alla cattedrale ortodossa, chiusa ma intatta, dietro c’è il mercato, inconfondibile con tutti i suoi banchetti verdi, già visto insieme al suo carico di morti, sessantaquattro, nel 1995.

Il giorno dopo lasciamo Dino alla ristrutturazione della casa, con Omer esco in città. Visitiamo quel che si riesce a visitare. I musei sono per lo più chiusi.

È venerdì, giorno santo per i musulmani. Vediamo dall’esterno, nel cortile, la bella moschea Gazi Husrevbeg. È grande, forse imponente per una città così piccola.

Ci attrae il museo ebraico, in una città musulmana. Questo è chiuso, ma entriamo lo stesso non visti. Il museo era prima una sinagoga. Ora tutto è ammassato in scatoloni o alla rinfusa. Curioso fra le masserizie, ci sono libri antichi, oggetti vari anche di valore, come delle posate d’oro. Ci colpisce la pila dei libri delle visite. L’ultima firma risale al 1991.

Arriva un signore. Gli chiedo come mai il museo sia chiuso. Ora è un deposito, in attesa di una nuova sede. Gli chiedo se ci sia la comunità ebraica, “prima della guerra erano circa mille, ora sono un centinaio”, risponde.

Andiamo quindi a vedere una moschea e la nuova sinagoga. Entrambe non hanno nulla da dire, se non che la moschea è ristrutturata, la sinagoga in decadenza. Entriamo nella sinagoga, popolata ora da quasi tutta la comunità, essendo un centinaio, nelle sale di ricreazione. Chiediamo di visitarla, una donna ci porta, la sinagoga dentro è piacevole, anche se gli stucchi sono ora impolverati e crepati, perdendo quella lucenza che di sicuro hanno avuto in altri tempi.

Poi usciamo e ci sediamo lungo il fiume. Un ragazzino ci sente parlare in italiano e dopo un po’ attacca discorso. Dice che è stato a Roma, che parla l’italiano, e si offende quando Omer cerca di parlargli nella sua lingua: “perché tu mi parlare in bosniaco quando io parlare perfetto italiano!?”, quasi che non rispettassimo la sua grande volontà. Ci vuole portare a vedere “i quartieri simpatici di Saraievo”. Vorremmo anche accontentarlo, ma non abbiamo tempo nel nostro corto programma.

Sulla via del ritorno verso casa ci fermiamo alla moschea Ali-Pašina Džamija. È venerdì, ma entriamo, invitati anche dai vecchietti seduti sotto la volta d’ingresso, e che, per come sono vestiti e come si muovono, paiono proprio orientali. La moschea è del 1560, piccola, raccolta, bella.

Torniamo a casa, portiamo in dono dei pasticcini e un vaso di fiori come un troppo piccolo omaggio per una grande ospitalità. È pronta per noi una cena rapida, ma non per questo meno buona: peperoni ripieni, una torta di formaggio, feta, cibo balcanico di eredità turca, presente anche in Romania.

Parliamo con il papà di Dino, della guerra naturalmente, naturalmente senza essere noi entrati nell’argomento. Parla in serbocroato rivolto a Omer, la madre mi traduce in francese, Dino ogni tanto integra in inglese: ci capiamo. Il papà di Dino è equilibrato, ci dice che serbi, croati, bosniaci, ognuno ha la propria versione sui perché della guerra, “tante verità di sicuro”, ci dice, “ma è anche sicuro che noi siamo stati sotto le bombe per tre anni. Non mi scorderò mai quando sono rimasto a difendere la casa in inverno con -30° fuori e dentro, dato che eravamo senza tetto e finestre” – “prima vivevamo in pace, il mio migliore amico è serbo ed è tuttora il mio migliore amico, il nostro buon vicino di casa è serbo anche lui” – “ma è arrivato Karadžic, che ha studiato qui medicina, e ha detto che tale convivenza non poteva andare avanti”. La madre interviene, “noi non abbiamo nulla a che fare con la Turchia, siamo ‘musulmani’ ma non siamo praticanti, e neanche per turismo siamo stati in Turchia, eppure dopo il massacro di Sebrenica, Mladic -il generale delle milizie serbe- ha dichiarato alla radio «doniamo alla Serbia la vendetta della battaglia del Cosovo»”, la sconfitta del Cosovo del 1389 ha segnato l’inizio della dominazione turca sulla Serbia, ed è la festa nazionale serba. La mamma incrocia le braccia, le è venuta la pelle d’oca nel ripetere quella frase. Il padre ci dice che rimpiange Tito, che il sistema prima funzionava, anche economicamente, ora c’è il nulla. Dino ci dice che le uniche fabbriche ora in funzione sono quella della birra e quella delle sigarette.

Finiamo i discorsi sulla guerra e con Dino e la sorella usciamo, andiamo alla ‘Sorgente della Bosnia’, alla pendici del monte Igman, durante la guerra luogo di duri combattimenti, dove nasce un torrente. La sorgente, gli annessi laghetti e il parco sono stati risistemati dal genio francese. La zona è ‘serba’, anche se ora compresa nella Federazione Croato-musulmana. Passeggiamo, ma al di fuori delle immediate vicinanze della parte risistemata il degrado di sette anni di guerra e non governo viene alla luce.

La sera usciamo ancora con Dino per la città, siamo tutti un po’ stanchi. Dopo esser stati in un bar con degli amici di Dino, ammirando le belle ragazze saraievesi, torniamo a casa.

La mattina alle sei e mezza troviamo la famiglia in piedi, ci preparano la colazione. Ringraziamo per quest’ultimo gesto di ospitalità, saluto Dino calorosamente.

Ancora due taxi, e poi sul pullman per Belgrado, anestetizzati dalla monotona musica chiamata turbo-folk, una derivazione di questi anni della musica popolare, dovuta all’isolamento anche culturale.

La guerra dei pochi

È l’alba a Belgrado. Sono le cinque del mattino, c’è un bar vicino al famoso ristorante “?”. Il bar sta chiudendo, dentro c’è ancora gente con della musica, alcuni ballano. Fuori sulla strada ai tavolini pochi chiacchierano, mi siedo anche io ad un tavolo. Proprio vicino a me c’è un ragazzo, evidentemente con troppo alcol nel sangue, che buttato su una chitarra cerca qualche accordo. Attacca discorso, mi parla in serbo, non capisco, vuole sapere l’ora, mi chiede da dove venga, ci presentiamo. Ora dal bar proviene una melodia, il ragazzo mi dice che è musica iugoslava degli anni ’70, il gruppo che suona è croato e le parole raccontano una cosa che non ho capito bene, ma che è triste. Il ragazzo poi mi parla della guerra. Inevitabilmente ognuno mi vuole dare la propria spiegazione di un fenomeno poco spiegabile. Questi musicisti croati, mi dice, sono ancora molto amati dai serbi. Lui è serbo, ed è orgoglioso che la Croazia sia arrivata terza alla coppa del mondo di calcio. Lui dice che questa guerra è stata voluta da pochi.

Questi pochi, aggiungo io nella mia mente, sono riusciti ad innescare una miccia dalla profonde radici, radici che sarebbero anche potute rimanere sepolte laddove è riuscito a seppellirle Tito, con il suo carisma e il suo pugno. Radici invece riportate alla luce dai pochi, apposta per alimentare un nazionalismo di molti, nazionalismo diventato sempre più ridicolo, tranne per il carico di morti che porta. C’era una volta la Iugoslavia.

9-12 luglio 1998

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