Mosca 1996
25. VIII. 1996
In volo sull’Europa. Ore 17:05. Il viaggio è ufficialmente iniziato. Il volo di linea Aeroflot su286 è bellissimo: fa schifo. L’Iluscin-86 visto da dentro sembra avere decenni di vita, in pratica non hanno mai rifatto gli interni. I sedili sono sfondati, e i tessuti, logori, puzzano di vissuto umano. L’altoparlante gracchia. Ma d’altronde non posso non essere contento: non cercavo proprio questo?
Ero seduto, ovviamente lato finestrino, con due ragazze russe di fianco. Bella lì, ho pensato, ora faccio un po’ di conversazione ostellante… arriva una terza e iniziano a confabulare fra loro. Ad un certo punto l’arrivata si rivolge a me dicendo, «scusi… signore-parla-italiano?». Io, esaltato, «Sì!», «allora possiamo fare cambio posto?»… per la mazzata che ho preso l’aereo ha un rollio di 30°. Così per stare vicino alle amiche mi sbatte in business class (che non cambia un cazzo dall’economy: socialismo reale) a fianco di altre due ragazze russe: Susha di otto anni e Ina di sette, entrambe di Tula. Ma di bambini l’aereo è pieno, ce ne sono almeno duecento, sono quelli che vengono a passare le vacanze in una famiglia italiana.
Passano a portare da bere, Ina chiede, con perfetta pronuncia, «Sprite» a voce ferma e ben scandita. Siamo sulle Alpi. Dall’alto i paesini sembrano tutti svizzeri, ma forse siamo sull’Austria. Con Susha riesco a fare un po’ di conversazione. Mi chiama “piccolo russo” per le numero cinque parole (per ora… per ora) che conosco. Invece Ina inizia a farmi il solletico e a nulla serve dirle “solletico njet”, lei continua imperterrita finché non servono la cena. Breve sintesi: pane gommoso grigio, dolce secco, fagiolini crudi… ma va bene così, mangio tutto.
Susha e Ina mi fanno dei piccoli regali per salutarmi: una specie di righello di Pocahontas e una caramella… che tenere… ma il mio zainetto è rimasto (sig) in economy e quindi non riesco a ricambiare.
L’arrivo all’aeroporto è drammatico. Dopo una lunga coda ai passaporti, in mezzo a ogni refuso dell’ex-SSSR, passo attraverso il nulla da dichiarare, sbagliando in quanto con me avevo della valuta. All’uscita dall’area degli arrivi, nella mezza oscurità tipica degli edifici russi, vedo intorno a me migliaia di persone. Cerco fra queste il volto semitico dell’amico Omer ma vedo solo abkhazi, kirghisi, ceceni, … no ceceni no, tagiki, turkmeni, ossetiani… ma di Omer nessuna traccia. Sono oramai le 11:00, chiedo all’Intourist quanto costa il taxi: 50$. Scordateli. Cambio 20$ e esco sul piazzale alla ricerca di un mezzo economico per arrivare in città. C’è un cartello che interpreto essere valido per un autobus. Intorno a me ci sono solo tassisti che girano in cerca di allodole, che tentano di dirmi che l’unico modo per arrivare in città è il loro taxi, e che gli autisti di autobus dormono tutti. Ma ci sono altri russi tenaci (n. 5) che aspettano l’autobus. Anch’io con loro. Il piazzale intanto si sta svuotando.
Ormai è tardi, è quasi mezzanotte. Tre dei cinque russi se ne sono andati, e rimangono due giovani, una tipa e un tipo che paiono fratelli. Più in là dei kazachi che aspettano non so che cosa. Ma l’autobus è come i Tartari: non arriva mai. Tartaro sembra invece il tipo che mi salverà.
Uno dei due russi infatti si assenta un attimo e torna dicendo alla sorella «vieni, ho trovato» (traduzione libera). La sorella mi fa cenno di seguirla e io a quel punto mi butto. Li seguo e mi portano fuori del piazzale dove un paio di tipi loschi trafficano intorno ad una macchina che non riesco a descrivere. Uno di questi è il Tartaro. Mi fanno cenno di caricare e io carico. Ma sento odore di fregatura e chiedo alla tipa quanto vuole il Tartaro e questa arrabbiata: «zitto!». Dopo una lunga corsa arriviamo in un grande spiazzo scarsamente illuminato, ci sono vari baracchini e babuska che vendono la loro mercanzia. Ormai è mezzanotte e mezza. Intorno a me loschi figuri. Dopo aver pagato il Tartaro, e io la mia parte ai russi, chiedo loro se vengono in metrò: «njet».
Così mi inoltro nella ex metropolitana Lenina da solo. Pago il biglietto e scendo. Qui cerco di chiedere informazioni a qualcuno e dopo tre cambi giungo a destinazione. Non ci sono segnali, solo scritte e queste solo in cirillico. Per tornare in superficie ci sono delle scale mobili lunghissime che giungono nella cupola della stazione di superficie, sulla cui volta è dipinta una enorme falce e martello. Stazione Smolenskaja.
L’albergo. La hall è buia e cupa, faccio il check-in e telefono a casa: cinque dollari un minuto. Parlo quarantacinque secondi e mi chiedono 10 dollari (loro contavano pure la composizione del numero e pure lo squillare). Dico: «io non pago», alla fine pago cinque dollari, mi hanno proprio rotto i coglioni: solo perché sei straniero non sei miliardario per forza.
26. VIII
Sveglia e colazione. Poi a piedi mi inoltro in città, ma le distanze non sono come quelle delle città europee, e quindi faccio i chilometri, ma alla fine arrivo alla Piazza Rossa, che mi aspettavo più larga e lunga, e che invece non ha tutto questo spazio. L’effetto è comunque suggestivo. Il Cremlino, il Mausoleo di Lenin, San Basilio e i magazzini gum. Questi dentro hanno ancora qualcosa di caratteristico anche se sono lasciati decadere. Vado poi ai giardini di Alessandro, dietro il Cremlino, vedo la tomba al Milite Ignoto e l’obelisco dei pensatori socialisti e comunisti. Al parco mi siedo per riposare e osservo i moscoviti. Turisti, per fortuna, molto pochi.
Entro nel Cremlino, il tempio del potere sovietico. La sede del governo e quella del Politbjuro, il vero ed unico organo di comando dell’ex-Urss. E’ proprio bello dentro il Cremlino. La statua a Lenin non c’è più.
Torno in albergo ad attendere Omer. Questi si presenta in camera: capelli tagliati, zaino sulle spalle, marsupio “Manfibio”, jeans e camicia: un vero italiano. Mi porta a vedere la sua residenza universitaria. Un bel palazzone di venti piani, tetro, pieno di razze diverse fra cui domina quella coreana. Del Sud, purtroppo. La stanza è molto bella e luminosa: un vero lusso. L’unico problema è che si sono macchie ovunque, di tonalità che vanno dal giallo unto al marrone sudicio: meglio non indagare. Dopo aver liquidato uno scarafaggio usciamo. Gli ascensori naturalmente non arrivano mai. E’ proprio una bella residenza.
In un supermercatino compriamo pane e salame e ceniamo in un giardino pubblico dopo averne cercato a lungo uno con delle panchine.
27. VIII
Stamattina voglio vedere Lenin. Lascio lo zaino al deposito e proprio quando vedo il poliziotto col metal detector mi rendo conto che il coltello svizzero ce l’ho in tasca. Naturalmente il deposito è a un chilometro di distanza. Passando davanti al poliziotto alzo la maglia e gli faccio vedere il marsupio, lui mi fa cenno di passare e non mi metaldectarizza.
Il Mausoleo. Granito rosso. Maestoso. Entrando subito si capisce di entrare nella Storia. Dalla luce piena dell’esterno si passa in un cupo buio. Sto fermo un minuto per abituare gli occhi all’oscurità: non mi voglio perdere nulla. Riapro gli occhi e vedo alla mia sinistra una guardia che mi guarda. Vado verso di lui e poi a destra scendendo delle scale, di fronte un’altra guardia, ancora a destra ed entro. Eccolo. E’ bellissimo, in una teca di vetro, gli occhi chiusi, vestito di scuro, ai piedi una bandiera rossa. Si compie un giro intorno ai piedi. Davanti a me un giapponese con le mani congiunte gli porge saluto. La guardia lo intima a proseguire. Esco. Commosso.
Proseguo visitando le tombe ai piedi delle mura del Cremlino. Ci sono vari rivoluzionari d’Europa. C’è pure Gagarin, Malenkhov, Kamenev… poi ci sono i membri del Politbjuro e i segretari generali del pcus: Breznev, Andropov, Stalin.
Vado al Kulturi Park, meglio conosciuto come Gorkij Park. Purtroppo una gran parte del parco è stata “privatizzata” e occupata da un parco divertimenti con varie giostre made in occidente (Treviso). Le montagne russe invece sono americane. Ci sono poi infiniti chioschi che vendono le stesse cose: panini e bibite. Ogni chiosco ha la radio a volume altissimo, così la pace del parco è violata. Non solo, passeggiando si passa da attraverso i vari coni sonori dei chioschi con le melodie che si mescolano: sgradevole. Trovo un angolo tranquillo e mi siedo a scrivere questi appunti. Ai parchi mi trovo bene. Da solo. Mi ricordano quando ero bambino in Romania. Intorno a me sulle varie panchine ci sono poche persone. Sole. Fissano il vuoto, sedute, immobili. Per interminabili momenti. Come vorrei leggere nei loro pensieri.
Mi incontro con Omer. Andiamo al Museo della Rivoluzione. Purtroppo è lasciato cadere a pezzi. La bigliettaia già prima di entrare mi guarda con sorriso furbo. Mostriamo le tessere e compriamo i biglietti, Omer paga 1500, io 10000. «Ma scusi», le dico in russo perfetto, «perché lui 1500 io 10000?». «Tu ce l’hai la tessera della mgu?», mi domanda. «No, Bocconi, italianinskij universizet!». «Vedi», conclude, «ti sei risposto da solo». Questa è solo la prima di una lunga serie di inculate (e relative prese per il culo da parte di Omer).
Il museo è proprio bello. Non c’è dentro nessuno. Qualche turista occidentale. Ci sono molti cimeli. Ma la cosa più bella è il martello pneumatico di Aleksej Stachanov.
Stachanov (Aleksej Grigor’evic), Ordine Lenin del Lavoro, minatore sovietico (1906-Mosca 1977). Operaio perforatore a Irmino (Donbass), il 30-31 agosto 1935 stabilì uno straordinario record, estraendo in 345 min 102 t di carbone. Il 19 settembre successivo stabilì un nuovo primato, col proprio gruppo di lavoro, 227 t. Il suo esempio fu all’origine del sistema d’incentivazione della produzione noto col nome di stacanovismo.
Inoltre nella stessa teca c’è il suo libro “Il mio metodo”, oltre a foto e testimonianze. Ho la pelle d’oca. Vediamo poi la riproduzione della statua “l’operaio e la ragazza del kolchoz”, ed è Omer a commuoversi.
Poi facciamo tappa al cimitero delle statue, dove Omer ha l’idea geniale di fotografarci ai piedi di un Breznev di marmo, leggendo la Pravda. Qui domina anche il mitico Djordjinskij, fondatore della mitica CeKA.
La giornata si chiude sull’Arbat.
28. VIII
Metrò fermata VDNKh (…..). Esco e vedo uno dei due migliori monumenti dell’era sovietica. L’Obelisco alla Cosmonautica. 100 metri di titanio scintillante che culminano in razzo stilizzato. Dinamismo verso il cielo. Alla base i bassorilievi che simbolizzano la via socialista alla conquista dello spazio, tecnici, scienziati che gli urlano: vai, vai. E Gagarin sale le scale verso il Cosmo.
Sotto il monumento c’è il museo memoriale della cosmonautica. Tute spaziali, satelliti, cibo liofilizzato.
Entro alla VDNKh. Mostra delle Realizzazioni Economiche del Socialismo. E’ una specie di parco esposizioni. Un lungo viale con fontane, fra cui quella dell’Amicizia fra i Popoli. Ai lati i padiglioni agricoltura, energia nucleare, aeronautica, industria, … vuoti. Tutti vuoti di quello che era la VDNKh. Ora in quei padiglioni, Grundig, Chrysler, Samsung. E lungo i viali chioschi di Cocacola e hot-dog. Ad un certo punto la fontana dell’Amicizia prima spenta inizia a zampillare e gli altoparlanti iniziano a diffondere musica sovietica: un tuffo nel breznevismo interrotto presto dalla musica simil‑americana con intervalli pubblicitari.
Esco e vado verso la torre della TV, Ostankino, la TV di stato. Dopo un paio di chilometri eccola nei suoi 540 metri di altezza. Salgo alla piattaforma con un ascensore AEG, a metri 337. C’è purtroppo foschia. E poco si vede. In lontananza centinaia di palazzi bianchi formano un quartiere in periferia: edilizia popolare. Mi accorgo dall’alto che vicino alla stazione del metrò c’è l’altro più bel monumento dell’era sovietica: l’operaio e la colcosiana.
Ventiquattro metri di lamine di titanio che simboleggiano l’avanzata verso il socialismo dell’operaio e della contadina, fianco a fianco, lui col martello, lei con la falce, in alto, al cielo.
Mi tuffo nel metro è vado alla ricerca del museo delle forze armate. All’ingresso una scala di granito grigio proietta verso un mosaico di marmo raffigurante… Lenin. Ecco il museo con le glorie dell’Armata Rossa. Qui vedo i resti dell’U2 abbattuto il 1o maggio 1960, gli schemi con la presa del Reichstag e la gigantografia dell’issamento della bandiera rossa su di esso.
Devo correre alla Trezakova, dove ho appuntamento con Omer. Alla fine con una buona mezz’ora di ritardo arrivo. Naturalmente il biglietto io lo pago 15000 e Omer 1500.
Questa è la galleria dell’arte contemporanea russo-sovietica. C’è un po’ di avanguardia e c’è pure l’iperrealismo staliniano. Cerco invano “col cuneo rosso colpisci i bianchi” ma Omer mi dice che è al MOMA di Nuova York. Stiamo per uscire, ma un bancarella attira la nostra attenzione: vende vecchie cartoline a poco prezzo. Qui dopo aver rovistato facciamo incetta di autentici cimeli come: “fabbrica di computer a Lubny”, “stele per il cinquantenario del komsomol di Tasckent” e di seguito.
La cena la prendiamo in un “fast-food” sull’ex via Gorkij: solo il fatto che oggi stia qui scrivendo mi ha tolto il dubbio di aver preso chissà che battere. Comunque mi sentivo parecchio “locale”: ai tavolini vedevo solo russi, i nuovi “giovani” di media borghesia, vestiti modesti che imitano quelli occidentali, l’arredamento del locale umile e semplice.
Poi si va a dormire.
29. VIII
Oggi non vedrò Omer per tutto il giorno. Infatti il mattino ha lezione, poi nel pomeriggio una piccola festa per la cerimonia del diploma. Ne approfitto per fare qualche bel giro devastato. Inizio dal museo della Grande Guerra Patriottica, cioè la seconda guerra mondiale dove l’URSS dopo l’alleanza con la Germania perderà 20 milioni di vite. L’unico problema è che il museo dista molto da qualsiasi metrò, così dopo esser sceso da una fermata, che mi sembrava quella più vicina, mi incammino verso il museo. Attraverso un quartiere popolare, dove posso notare i vecchi negozi di stato, dove i prodotti di stato si ripetono monotonamente nelle vetrine. Alla fine raggiungo il Viktorij Park e vedo questa enorme struttura che è il museo. Questa è la prima opera psudo-ideologica del nuovo corso. Il progetto era stato iniziato dal Politbjuro di Gorbacëv, poi finito dal sindaco di Mosca. Purtroppo dopo un paio di chilometri di camminata il museo è inspiegabilmente chiuso. Neanche i moscoviti riescono a capire perché e pure loro con stupore (a dire la verità neanche troppo marcato, come dire: in Russia le cose vanno così) tornano a casa. Il parco, con il lungo viale con le fontane (che di notte sono illuminate di rosso: il sangue del sacrificio) è un misto di retorica sovietica e di neopatriottismo russo.
Decido di andare al museo Puskin. Prima però voglio passare da uno dei miti di Mosca: l’enorme piscina all’aperto che d’inverno viene riscaldata, sulla riva della Moscova. Ma questa ora non c’è più. Al suo posto è in costruzione una enorme chiesa. Poi scoprirò che il terreno su cui la piscina era stata costruita, negli anni ‘60, era quello di una chiesa fatta tirare giù da Stalin: oggi la Chiesa si è presa la rivincita. Il Puskin mi delude un po’. E’ un pot-pourri di arte di tutto il mondo di tutti i tempi, bello ma convenzionale.
Prossima tappa: museo dello sport, allo stadio “Lenin”. Uscendo dal metrò, alla fermata Sportivnie, mi vedo venire incontro moltissima gente, dall’aspetto povero e trascurato, i più hanno grandi borse. Questo enorme flusso di gente proviene dallo stadio: penso subito che sia finita una partita, invece mi accorgo che davanti allo stadio, sull’enorme piazzale, era allestito un mercato. Tutta la gente che vi defluiva, per lo più fisionomie asiatiche, dovevano essere i venditori. Lo spettacolo è impressionante. Migliaia di persone con borsoni e banchetti smontabili che vanno verso il metrò e io che vado loro incontro. Chiedo ad un poliziotto dove sia il museo e questo me lo indica: è sotto lo stadio. Così chiedo il permesso di entrare nel recinto, ai poliziotti che curano il cancello. A dispetto di tutta la gente che esce io entro. Qui vedo i resti del mercato: una distesa di rifiuti. La gente non ha ancora sfollato che l’amsa di Mosca ha già iniziato a pulire (?!). I camion iniziano a sparare potenti getti d’acqua ignorando la gente che ancora non è uscita, bagnandola e sporcandola. Intanto le ruspe iniziano a passare e a tirare su la massa di rifiuti. Io facendo lo slalom fra i camion e gli spazzini arrivo al museo: chiuso. Faccio una foto di tutto questo spettacolo all’ombra di una grande statua di Lenin.
Uscendo ritorno verso il metrò e vedo che i poliziotti e i militari posti a controllo di questa enorme massa di gente fermano tutte le persone con la pelle scura e vestite in malomodo: i non russi. Chiedono i documenti, e questi mostrano foglietti spiegazzati e macchiati: credo siano gli stranieri dell’estero-vicino, che prima in patria si sono ritrovati immigrati nel ‘92.
Infine vado al museo politecnico, anche questo è chiuso, ma c’è il portiere, gentile, che con pazienza mi spiega che domani sarà aperto.
Ceno in stanza con prosciutto e pane comprati in un minimarket vicino all’albergo.
30. VIII
Oggi è la giornata che Omer ed io dedichiamo al girovagare per Mosca, per negozi, in Piazza Rossa. Iniziamo dall’Izmailovo, il mercatino per turisti alla periferia di Mosca. Qui iniziamo a sondare quelle che saranno le spese finali di domani: medaglie, busti, patacche, poster, …. Non c’è molto, oggi è venerdì, e quindi andiamo sulla Novij Arbat alla ricerca di dischi e libri. Da Melodije cerchiamo i cori dell’Armata Rossa, e troviamo qualcosa. Poi Omer con molta vergogna chiede: «Sccc… scusi aa… avete l’inno… gosudarve gimn SSSR…??» e la commessa, urlando che sentano tutti gli astanti: «HEI DIMITRI! CE L’ABBIAMO L’INNO SOVIETICO?» «DA NATASHA! CE L’ABBIAMO». Al negozio di libri invece compriamo le cartoline di “Lenin internazionalista” e Omer il manuale d’officina della ZAZ 960-960B: un autentico capolavoro.
Poi compriamo i francobolli e andiamo a pranzare in Università, alla mitica MGU. Per tutto il tragitto Omer mi martella descrivendomi nei minimi dettagli come sia il suo diploma («… ti dico che il timbro ha scritto CCCP… Università Statale di Mosca: MGU! MGU!… facoltà di filologia!… è pure tradotto in inglese!… »). Alla fine arriviamo alla mensa, che è molto bella. Solo un po’ sporca, comunque si mangia bene e si spende poco (per noi, naturalmente). Poi giriamo sulla Kalinin Prospekt (Novj Arbat)
Poi ci eclissiamo sull’Arbat a mangiare i giro pita e ad ascoltare un duetto di violino.
31. VIII
Oggi è dedicato agli acquisti. Torniamo all’Izmailovo per effettuare l’operazione “acquisto paccottiglia”. Ma subito siamo disorientati dalla quantità di merce e dal mercanteggiare dei venditori che cercano di estrarci tutto il nostro surplus del consumatore. Io compro la spilla da komandirskij di sottomarino, Omer un modello di Moskvich della GAI, poi riusciamo a trovare un paio di busti di Lenin in finto bronzo, e persino un modello in bronzo vero de “L’operaio e la colcosiana”: 150$. Troppi pure per l’amore di Omer per l’Opera. Ma alla bancarella dei poster è vero spettacolo. Ci innamoriamo di un poster di Lenin che indica “doroga nasha-vijernaja” su uno sfondo di bandiera rossa. Ma le trattative sul prezzo sono lunghissime e farcite della vita del venditore e della moglie. Questi è stato in Italia, ha girato, di qua di là… alla fine ci da il suo telefono di casa dicendo che sua figlia ha 22 anni (!), Natasha. Chiede ad Omer come fa a sapere il russo e perché io lo so così male (nonostante lo smontaggio in diretta mi pompo: male, ma lo so!) e Omer gli dice che lui è: «… uno studente alla MGU, a Mosca, alla MGU, ha capito? ho dello alla MGU, Moskva Gosudarnu Universitet, invece lui [e si rivolge a me] è solo un turista, sta qua solo una settimana… mentre io un mese… al pensionato studentesco della MGU, sì proprio MGU, Moskva Gosudarnu Universitet, lui in albergo cinque stelle/lusso… io sono qui per imparare il russo… lui è solo un turista… albergo cinque stelle/lusso…». Poi compro pure un poster di Gagarin. L’ultimo acquisto sono gli orologi Vostok, modello Komandirskij di sottomarino, impermeabile 200 metri, automatico, antiurto, datario, pallini fosforescenti.
Poi torniamo sull’Arbat a fare le ultime passeggiate e ci salutiamo. Io vado di corsa al museo Politecnico che sta per chiudere, e qui la commessa accetta per la prima volta la tessera della Bocconi e mi fa lo sconto studente: 2000R, dicendo pure guardando la foto: «simpatichiskij». Lascio lo zaino in un deposito fantastico dallo squallore: il vecchino che sveglio dal suo sonno appoggiato sul banco, mi dice che fra 45 minuti lui chiude e che buonanotte. Inizio il giro e subito noto che oltre a me ci sono un paio di giovani russi devastati ma veramente interessati, due coppie giovani con figli piccoli a cui fanno fare la gita della domenica. Il museo di quaranta sale conta 9 visitatori. Qui posso ammirare tutta la produzione fotografica dell’URSS Zorki 1… 4, Fed 1… 5, Zenit 11… 12xp, Kiev 19, Kiev 88. Una sezione molto bella era quella delle miniere, con spaccati, macchine, modelli. La più triste quella dell’elettronica di consumo: radio e televisori preistorici, le macchine da scrivere elettriche dell’Olivetti e della Siemens. Il baratro nella sezione informatica, dove accanto a un enorme calcolatore a valvole c’erano computer dell’IBM messi lì posticci e fuori luogo con la pubblicità del negozio che li vende.
Però il bello è all’ultimo piano con la sezione dello spazio, dove si può vedere sana retorica pacifista. Qui ci sono modelli di Lunik, Mars, Vostok, Buran, riprodotti in scala, oltre alle già viste tute spaziali, cibo liofilizzato, etc. Il museo inizia a chiudere, le commesse chiudono le sale, e io mi precipito al deposito bagagli, che come il presagio aveva lasciato intendere è sbarrato. Inizio ad agitarmi, domani parto alle 6 del mattino e nello zaino ho la macchina fotografica da 1 milione. Le commesse del museo stanno già uscendo e io cerco di rivolgermi ad una di loro. Questa si preoccupa per me e dopo un minuto torna dicendomi: «arriva». Ecco comparire il vecchino, tiene in mano un barattolo di fagioli tutto arrugginito con l’etichetta tutta sudicia, dentro scorgo del caffè nero chissà dove preso, che il vecchio sorseggia. Esco dal museo.
Torno in albergo e vado a nanna, ma non riesco a dormire, come la prima sera. Domani mi sveglio alle cinque.
1.IX.1996
Mi sono alzato alle cinque. Il taxi ce l’ho alle sei. L’aereo parte alle 8 e cinquanta e devo essere in aeroporto due ore prima. Scendo nella hall dell’albergo e non c’è nessuno. In realtà il tassista dovrebbe essere già lì. E’ tutto deserto. Io devo pure fare il check-out. Ma dietro i banconi non c’è nessuno, però vedo una porticina aperta e intravedo dietro quella che interpreto la receptionist che sta dormendo su un divano, allora sussurro: «izvinite?», la tipa sussulta e mi viene incontro bestemmiando in cirillico. Le spiego che devo fare il check-out, le do la chiave elettronica della camera, e lei la butta sul bancone dicendo, stizzita e arrabbiata: «check-out fatto» e torna a dormire. Intanto il tassista non c’è. Sono già le sei e un quarto quando sento che dietro il bancone del servizio taxi c’è qualcuno. Mi sporgo e vedo una brandina con un sacco a pelo e dentro una ragazza. Capisco subito che in realtà i servizi sono attivi 24h/24. Così con il fascio di poster batto sulla spalla della tipa svegliando anche lei. Le spiego la situazione e lei dice: «dovrebbe essere già qui: aspetta!», e torna a dormire. Passa il tempo e non arriva nessuno, allora torno alla carica e la tipa si decide a telefonare, mette giù e rivolta a me, «he’s very good driver, will take you at the airport in just twenty minutes!». La cosa di sicuro non mi tranquillizza. Alle 6:45 invece che alle 6:00 si presenta il tassista, un ragazzo enorme con tipica faccia russa, vestito alla russa con i jeans neri e il giubbotto di pelle. La macchina purtroppo non è russa, bensì una Chrysler Voyager: bello schifo. Chiedo di stare davanti, salgo, faccio per mettermi la cintura e lui dice: «Njet!». Dopo una lunga e pazzesca corsa nell’alba moscovita giungo allo Shermetevo-2. Qui non c’è ombra di Omer. Lo aspetto. Niente. Mi inizio a preoccupare. Anche perché dall’organizzazione della MGU ci si può aspettare di tutto. In fila alla dogana aiuto una ragazza a portare il suo bagaglio, poi la conoscerò come Miriam. Decido di passare la dogana, ma quì non ho il foglio di entrata timbrato (all’andata infatti ero passato per il nulla da dichiarare), il doganiere però non prova neanche a fare storie. Inizia a curiosare invece coi poster, allorchè io gli dico che sono «propaganda Lenina», lui, «ah da». Passo la dogana e vado allo sportello dell’Aeroflot, gli chiedo a che ora chiudono il check-in, e mi dicono alle 7:55. Sono le 7:40. Mentre aspetto sento le hostess che parlano e percepisco le parole “Ferrari” e “grupa”, capisco che manchiamo solo io e il gruppo di Omer per chiudere la boarding list. Chiedo se Fisher ha già fatto il check-in, mi dicono di no, anzi mi chiedono se so qualcosa. La tipa poi mi dice se Fisher è un mio amico, gli rispondo di sì, allora lei mi propone di tenere un posto vicino a me. La ringrazio e faccio il check-in. Quando sono in fila al controllo passaporti vedo che Omer e il gruppo arrivano, sono ormai le 7:50. Così Omer si ritrova col biglietto già pronto: operazione da KGB, tant’è che alla fine passa pure per “passaporto diplomatico”. In attesa dell’imbarco facciamo conoscenza con Miriam, la ragazza a cui ho dato un aiuto. Lei, poverina, è solo di transito a Mosca, viene da Soci per andare in Italia e si è scontrata con la burocrazia a muro russa: aveva chiesto un biglietto per Roma, le avevano detto che non c’era posto, di prendere quello per Milano, si presenta al check-in e le dicono che Milano è completo, di prendere quello per Roma, ma poi anche Roma è completo. Alla fine vedendola piangere mi sono commosso e le ho dato una mano e l’ho rincuorata, la sua risposta: «this is a shit country!». Poi c’è la fatta ad imbarcarsi.
In volo poi inizio a rompere ad Omer per andare a vedere la cabina di pilotaggio, ma lui non vuole. Allora lo inizio a torturare, ma poi vista la sua pazienza e l’impazienza della nostra vicina vado da solo. Però la capa-hostess non vuole, allora insisto, e lei non vuole, allora mi piazzo davanti alla porta d’ingresso e quando lei porta da mangiare ai piloti intravedo la cabina: una piccola vittoria. Con divertimento noto che il bocchettone dell’aria del mio sedile è indipendente dall’areazione dell’aereo ed ha una piccola ventola auto-alimentata che azionata produce un tetro sibilo, noto con soddisfazione che Omer invidia questa mia tecnologica primizia.
Il possente Ilushin-86 tocca terra a Malpensa e il così il nostro viaggio si conclude. Con un po’ di nostalgia e malinconia.
CONCLUSIONI
Ho notato varie cose in questo mio breve soggiorno moscovita. Che ad esempio nei musei “russi” come la Trezakova, Politecnico, Armata Rossa, ci fossero quasi nessun occidentale e pochissimi russi, mentre in quelli “occidentali”, Puskin, fosse pieno di occidentali. Ora andare a Mosca per vedere Gaugain, Renoir, e non vedere Kandinski, lo Sputnik secondo me è da fucilazione alla schiena con pallottola addebitata ai familiari.
Nessuno a Mosca conosce una lingua straniera. Fuori dall’ambito turistico ufficiale: albergo e aeroporto, nessuno parla l’inglese, il francese, il tedesco, l’esperanto. Io ho sempre riportato tutto con il discorso diretto in italiano ma i dialoghi sono veri e fedeli alla realtà anche se basati sulle poche parole che conoscevo, gesti e scaltrezza che non mi mancava.